“Trasformeremo il caso in destino.”
(Ultimo Tango a Parigi)
(Ultimo Tango a Parigi)
Il 15 dicembre 1972 usciva nelle sale “Ultimo tango a Parigi” (tagliato, vivisezionato, depredato con un becero e filisteo furore da Santa Inquisizione Spagnola).
Sono passati quarant’anni e, mi dispiace per voi, scopofili degli anni duemila, il film, con il passare del tempo (e, soprattutto, a causa della malattia che contraddistingue la nostra generazione: ossia la totale incapacità di scandalizzarci) ha perso tutta la sua carica oscena. Insomma, guardando questo capolavoro con i nostri occhi stuprati e privi di immaginazione non si riesce proprio a capire come abbia potuto scatenare tanto putiferio.
Questo film non farebbe storcere la bocca nemmeno ad una suora (e non mi riferisco né a suor Maria Claretta né alla monaca di Monza.)
Trattasi di film di alto spessore morale, non è un film da cinema a luci rosse e non è un prodotto riservato ai pervertiti.
Checchè ne abbia detto la censura, i temi sono tanti e profondi: la sessualità spinta del film è solo un pretesto per raccontare la fatale promiscuità di Amore e Morte.
Il film si muove per assoluti: c’è quest’uomo di mezz’età solo perchè la moglie è morta suicida, rincorso da vecchi fantasmi che incontra una donna giovane e molto estroversa, intreccia con lei una relazione morbosa che ossessionerà entrambi e che terminerà con la sua morte (la giovane amante, infatti, gli sparerà dopo l’ultimo tango danzato in una sala da ballo parigina).
Amore e Morte, quindi, ma anche vecchiaia e giovinezza eppure stranamente lette e raccontate al contrario: qui è la giovane donna ad essere legata agli ideali borghesi e a volersi emancipare da un rapporto che è puramente occasionale e totalmente sganciato dalla vita reale, dalle loro effettive esistenze separate (che, tra l’altro, sono entrambe molto penose), mentre il suo amante non ha nessuna intenzione di seguire il tradizionale percorso di una coppia normale, anzi, si può dire che trovi nell’anormalità, nella stranezza la sua vera identità, la sua vera ragione di vivere o, in ogni caso, l’unica ragione fondante la loro relazione.
La storia è molto complicata e molto spesso sfiora l’incomprensibilità (cosa che a me non ha mai infastidito troppo perché ritengo che la Bellezza si annidi proprio lì, in quei punti impenetrabili e apparentemente privi di significato o che non ne hanno uno univoco) mentre l’ambientazione è claustrofobia per immagini.
Una Parigi sporca, oscura, fatta di hotel tappezzati di carta da parati scadente, colonizzati dai topi: stanze spoglie, pochi oggetti ricoperti di polvere, letti sfatti. I personaggi ambigui si aggirano per le stanze come fantasmi, spiriti invecchiati, che profumano di stantio, donne troppo truccate, con il rossetto sbavato ai lati della bocca e la pelle che comincia ad aggrinzarsi sul labbro superiore, uomini calvi, imbolsiti, con le giacche usurate sui gomiti: la bellezza oscena del film è quest’aria che si respira, un’aria pesante, un sospiro di decadenza.
Il personaggio maschile non ha nome e non vuole averne uno: evade dalla realtà, rinasce per, poi, morire di nuovo sotto i colpi di pistola di un amore che nasce a suo discapito. Nonostante questo è un uomo saggio, che dà continue lezioni di vita: le sue idee estremiste sono il risultato di una vita intera, la sua, che è stata una corsa trafelata per sfuggire al suo passato.
Perciò sfuggire il presente rifugiandosi in un appartamento con una donna senza nome sembra davvero la soluzione più facile e insperata.
La donna, invece, è un personaggio pieno di vitalità ma anche vuoto: una scatola da riempire, un oggettino prezioso da plasmare. Una specie di innocuo carillon che, poi, si rompe ed inizia ad emettere una melodia stonata, un sibilo fastidioso, sbagliato.
Maria Schneider disse tante cose su questo film: si definì spesso “prigioniera” di Ultimo Tango.
Dopo aver girato quel film la sua vita non fu più la stessa: divenne tossicodipendente, venne rinchiusa per mesi in un’ospedale psichiatrico, boicottò numerosi film con il suo comportamento scostante. Venne talmente traumatizzata che non volle mai più girare scene di nudo.
Si definì più volte sfruttata e ingannata dal regista Bertolucci, soprattutto, a causa della celebre scena del burro:
“Quella scena non era nella sceneggiatura. La verità è che è stato Marlon ad avere l’idea. Mi hanno detto cosa volevano fare solo prima di filmare la scena ed io mi ero arrabbiata. Avrei dovuto chiamare il mio agente o il mio avvocato perchè non si può obbligare un attore a fare qualcosa che non era nella sceneggiatura, ma all’epoca non lo sapevo.”
Una ragazzina ingenua, quindi, che a causa della popolarità e della fama negativa divenne la vittima di un capolavoro che avrebbe incontrato notevoli tribolazioni giudiziarie.
L’arte che fa scandalo reca sotto la firma di Bertolucci e la provocazione è forse la più interessante delle muse ispiratrici: infatti, è passato quasi mezzo secolo e ancora ne stiamo parlando.
Certo, sapere che, a vederlo oggi, questo film non scandalizza più nessuno mi rende triste: vorrei potessimo tornare indietro, ritrovare la nostra capacità di stupirci, il talento di corrompere con garbo, di scuotere il perbenismo attraverso la ridicolizzazione delle sue idiosincrasie.
Perché, alla fine, di Ultimo Tango a Parigi quello che sconvolge di più è il ritratto impietoso di un uomo che si rende conto di vivere in un mondo che sta morendo. Bertolucci voleva dipingere il ritratto di una generazione che coglie il paradosso della vita: la difficoltà di continuare a perpetuare la sua esistenza in una realtà che ha tutte le caratteristiche di una cosa morta, uccisa dal suo passato, dal suo stesso modo di viverla.
La morale dell’immoralità è questa: non aver paura di chiedersi “Quo vadis, baby?”