Una scrittura quasi corporea con immagini così vivide e reali da rendere l’epopea dell’Arminuta, la Restituita, bambina senza nome e senza storia, una vicenda di rara bellezza.

Da noi in Veneto si chiamano “figli di anima” sono quei bambini “fortunati” che vengono affidati a una famiglia più abbiente, magari senza figli naturali, che li cresca e dia loro una vita migliore, per sfuggire alla miseria.

Solo che, in questo caso, la famiglia adottiva restituisce la figlia come un giocattolo rotto e lo riporta alla realtà di un nucleo fino ad ora sconosciuto, ad una casa mai vista prima, rendendo impronunciabile oltre il nome di madre.

L’Arminuta non sa di chi sia figlia, fino quasi alla fine non conosce le ragioni della restituzione e si colpevolizza, macchiata da misfatti dolorosi e incompresi.

Troverà nuovi fratelli dai capelli sporchi e dalle scarpe lerce che parlano dialetto, due genitori ammutoliti e indaffarati a portare a casa un pane sempre insufficiente per tutte quelle bocche, troverà spazio e ricordi in una famiglia in cui è ospite estraneo, escrescenza incompatibile.

Lei che parla italiano, che ama la scuola ed è la più brava di tutti, lei che, paziente e silenziosa, soffre nelle notti il ricordo di una famiglia che l’ha abbandonata.

Tutto questo la segnerà per tutta la vita, come solo i traumi d’infanzia possono fare ma la sua esistenza continuerà arricchita di nuove possibilità, di amore che non sa parlare e di una sorella, Adriana, che rimarrà per sempre con lei come sfregio intagliato nella roccia che non sbiadisce mai.

Che dire, commenti a parte, ho amato l’essenza ruvida e quasi materiale dello stile di questo libro, le inflessioni realistiche di dialetti abruzzesi e, infine, ho amato questa storia indicibilmente dura per una bambina di tredici anni.

Mi sono ritrovata in lei, nella sua rabbia inespressa che brucia come un taglio col sale, nel suo smarrimento.

L’Arminuta è un romanzo di formazione di una durezza disarmante: calarsi nei panni della bambina costretta a crescere troppo in fretta per le decisioni degli adulti è quasi naturale e, proseguendo nella lettura, non si riesce a fare a meno di emozionarsi e di compatire i personaggi.

La scena finale ha qualcosa di inaspettato e magico e inchioda i protagonisti a una verità scomoda: forse davvero Adalgisa, la madre adottiva pentita, non ha una vita così perfetta e, forse, invece, la vita della bambina restituita ha acquisito, nello scambio, maggiore autenticità.

Il romanzo termina così e, anche se a volte, tra le parole, ci sono incursioni nel presente, in realtà non sappiamo la fine dell’Arminuta, non riusciamo a capire se abbia fatto pace con il suo passato, con le due madri così diverse, con la sensazione di mancanza che la pervade.

In fondo, è bello anche così, non sapere, poter fare congetture, immaginare l’Arminuta diventare madre: le scelte che farà da adulta saranno condizionate sempre da quel momento di rottura del suo passato, dal senso di non appartenere, di non avere uno spazio proprio.

Donatella Di Pietrantonio ci ha regalato una vera perla che io ho letto tutto d’un fiato in un giorno: complice l’estate, mi sembrava di sentire respirare i bambini di cui leggevo, compressi in un solo stanzone, affianco a me, potevo sentire l’odore della frutta, delle fave e del lungomare abruzzese, è un romanzo che ho più percepito che letto, più divorato che gustato ma penso sia l’unico modo per comprenderlo a fondo.

Voto: 5