Vent’anni fa ero una bambina di sei anni. Quando entrò a casa mia il cd del singolo “Candle in the wind” che Elton John aveva inciso e riadattato in onore di Lady D dopo la sua morte lo ascoltai voracemente e mi piacque. Non sapevo nulla della sua storia ma quella musica parlava molto più di tanti giornali-spazzatura che, al tempo, scrissero le cose più vergognose infangando la memoria di chi se ne era andato per sempre.
La canzone parla chiaro, anche se era stata inizialmente dedicata a Marylin Monroe, e tra note calme e raccolte dice: “ E mi sembra che hai vissuto la tua vita/come una candela nel vento/senza sapere a chi aggrapparti”.
Ora che sono grande e che ho scoperto tante cose, è proprio così che vedo la vita di Lady Diana Spencer, principessa del Galles, principessa dei poveri, degli ultimi, ma, soprattutto, principessa triste.
Sposata ad un uomo che, forse, non amava e che la tradiva, relegata in una vita che le stava quanto mai stretta, divisa tra obblighi di corte e di etichetta e la volontà strenua di fare a modo proprio, la vita di Lady Diana è stata un susseguirsi di lotte e sofferenze.
“Quando ero incinta di William da quattro mesi, continuavo a ripetere a mio marito che mi sentivo disperata e che non avevo più lacrime. Piangevo di continuo. Lui, per tutta risposta, mi disse che non mi voleva ascoltare perché le mie erano lacrime senza nessuna ragione, quindi è uscito per andare a cavallo e mi ha lasciata sola. […] Mi sono buttata giù dalle scale. La regina, quando l’ha saputo, era assolutamente inorridita, scossa, spaventata. Carlo, invece, è rimasto fuori dalla porta senza mai nemmeno entrare”.
Penso che le lotte, le battaglie che partirono dal giorno stesso del suo matrimonio quando rifiutò di pronunciare la frase d’obbligo per il rito reale in casa Windsor che le ingiungeva di obbedire al marito, furono l’estremo e vano tentativo di trovare un’identità a questo mondo che fosse solo sua, un’identità che poco aveva a che fare con i commenti della cronaca rosa e anche con quello che credevano di lei i vari membri della nobiltà e della famiglia di Carlo.
Cercare di dare ai propri figli un’esistenza normale, iscrivendo, per esempio, William ad una scuola materna di Londra invece di obbligarlo ad essere istruito in casa come era capitato a lei e anche al marito, tentare di vivere un’esistenza piena riprendendosi la sua meritata felicità lasciando un marito fedifrago che la obbligava a quel che lei stessa definì un matrimonio affollato e, soprattutto, parlare in pubblico delle proprie fragilità furono i suoi personali tentativi di uscire dalle logiche vetuste e soffocanti di una vita che aveva abbracciato forse ancora ignara di quel che poi avrebbe potuto causare alla sua sensibilità.
Diana era bulimica. Attualmente questo è un “male” concepito dalle persone, almeno quelle informate, al tempo in cui lei lo ammise però non c’erano sconti per le malattie mentali, non c’era comprensione.
“Carlo, solo una settimana dopo avermi chiesto di sposarlo, mi mise la mano sulla pancia e mi disse che ero un po’ paffutella e quel gesto scatenò qualcosa dentro di me”.
“Ho sofferto di bulimia per diversi anni. Infliggi ciò a te stessa perché la tua autostima è a livelli bassissimi e pensi che non vali nulla“.
Senza vergogne e senza ipocrisie raccontò di come si sentisse e di come dentro di lei i pensieri urlassero in cerca di ascolto. Perché, vedete, la bulimia è causata dalla distrazione degli altri, dal silenzio, dal vuoto d’amore. E Diana conosceva bene queste sensazioni, conosceva bene cosa significasse sentirsi sola anche se ricolma di attenzioni da parte dei media e degli occhi vigili della nobiltà britannica.
Nel 1996, quando divorziò da Carlo commettendo un peccato mortale per chi era lì solo per giudicarla dimostrò tutta la sua forza: penso che Lady D sia stata una vera femminista, nell’unico senso che questa parola ha per me, quello che gridava la sua azione era “donne, riprendiamoci la vita. Scappiamo da convenzioni, mariti infedeli, matrimoni infernali, piccole e grandi disperazioni. Riprendiamoci la nostra vita.” Ecco, concetti del genere dovrebbero insegnarli nelle scuole, alle bambine: vedete Lady D era una tosta, Lady D era la vera eroina della sua storia.
Ma Diana era anche molto fragile.
L’ultimo amore, Dodi Al-fayed, figlio del proprietario di Harrods a Londra e del Ritz a Parigi, nonché playboy risaputo e solito consumare 20.000 dollari alla settimana in cocaina, non fu una scelta felice.
Cosa stava cercando Diana? Io sono certa che cercasse l’amore, quello con tutte le lettere maiuscole. Ma in Dodi forse trovò l’estremo tentativo di ribellarsi a tutto e a tutti dimostrando una volta ancora che no, lei alle regole non ci stava, che lei faceva esattamente quello che desiderava fare.
Rifiutò la guardia del corpo della casata inglese che pure le spettava e, quella sera del 31 agosto di vent’anni fa esatti, forse ignara che l’autista Henri Paul dell’auto avesse bevuto un bel po’ di Pernod, salì in quella macchina con Dodi. Una macchina che ignorò un semaforo rosso e imboccò a folle velocità Voie Pompidou lungo la senna. La macchina, poi, aveva dei problemi: sbandava alle alte velocità e non frenava, e fu così che urtando un fanalino della Fiat che aveva imboccato nella corsia inversa la stessa strada sbandò veramente e si schianto a 120 kilometri orari contro il tredicesimo pilastro della galleria.
Circa mezzanotte e mezza, il primo fotografo ad arrivare fu Romuald Rat, seguito da altri due: tutti veterani di rotocalchi ma anche di guerra in Bosnia. Ma le foto che scattarono non le pubblicarono mai.
Si è parlato di complotto, poi. Si è detto che la macchina fu manomessa dalla casa reale inglese che non sopportava l’emancipazione dell’ex principessa. Si è detto tanto, forse troppo: penso semplicemente che un autista ubriaco che esagera con l’acceleratore non possa che causare la morte dei passeggeri.
Penso che Diana non avrebbe dovuto trovarsi in quella macchina perché stava semplicemente finendo invischiata in un’altra ragnatela di non-amore e, forse, lo sapeva anche lei.
Penso sia morta infelice com’è vissuta, di quella infelicità che si abbarbica alle anime fragili e che trasforma qualsiasi ala di farfalla in piombo.
Ecco cos’era per me Diana: una farfalla dalle ali piombo. Costretta a nascondere la pesantezza del suo vivere, la sua tristezza in onore di un’esistenza perfetta, da rotocalco.
“Mi piace essere uno spirito libero. A molti questo non piace ma questo è ciò che sono.”
Mi dispiace di essere stata solo una bambina, mi dispiace di non essermi indignata per le dicerie che infangavano il suo nome e nemmeno di aver vissuto le sue personali azioni a dir poco coraggiose e avveniristiche. Le azioni di una donna elevata a mito che cercava in ogni modo di ritornare “normale”. Mi dispiace, ma sto rimediando a modo mio, attraverso le parole, mie fedeli compagne di vita, perciò: questo pezzo è per te Diana, per te che sei stata e resti una di noi.