Io mi rifiuto di parlare con chi critica i Nirvana.
La mia passione per il grunge e, in primis, per i Nirvana ha radici antiche: in quinta elementare avevo chiesto a mio papà di regalarmi per la pagella la loro raccolta postuma più famosa, quella che contiene anche l’inedito “You know you’re right”.
Con riluttanza mi accontentò (della serie: “Queo che vende i dischi el me ga dito che no xe roba par tosatee”) e, così, per un mese o due non ascoltai altro.
Iniziai a raccogliere tutte le frasi che trovavo in giro su e di Kurt Cobain ma alle medie li dimenticai, li surclassò Eminem (e anche lì fu sempre mio padre a comprare i cd e persino il dvd di “8 mile”, sempre sbuffando perché “no xe roba educativa”): certo, rap e grunge hanno dei risvolti simili, una certa dose di disperazione e io ero una bambina alquanto disperata e arrabbiata.
Ma quest’estate il grunge è tornato: è stata come una chiamata dall’alto, un’epifania divina, il mio personale Gesù biondo mi ha tirato per il bavero e mi ha sussurrato all’orecchio: “Metti su Youtube Smell like teen spirit”.
Ho eseguito gli ordini e sono ancora là con le orecchie impigliate alla voce spezzata e rabbiosa di un angelo “più pesante del cielo.”
Kurt Cobain è uno specchio per me: ascolto le sue parole e le comprendo ma non solo ad un mero livello di traduzione, è uno strato di comprensione molto più profondo, io penetro nel suo mondo e lui penetra nel mio, rende insensato l’insensato, la sofferenza da culto diventa prigione.
Sono ossessionata da Kurt Cobain: vorrei sapere tutto di lui.
Aver letto i suoi diari (tra parentesi: ve li consiglio, vi consiglio tutto ciò che lui ha scritto) non mi è bastato, vorrei sapere di più.
Vorrei capire cosa lo rendeva unico e speciale, cosa lo rendeva normale e sbagliato.
C’è una fotografia di Kurt Cobain che quasi mi fa piangere: si vede lui con il suo maglione a righe che fissa l’obiettivo di una macchina fotografica che, probabilmente, l’ha preso alla sprovvista. Il “personaggio” è svanito grazie all’effetto sorpresa: gli occhi azzurri sono sperduti, il volto è contratto in un’espressione impaurita e lì, in quell’espressione da animale ferito, da bambino terrorizzato, io vedo il vero Kurt, il mio Kurt.
La gente pensa che Cobain fosse principalmente un tossicodipendente con manie di protagonismo e una tangibile e masochistica volontà autodistruttiva, la gente non sa di parlare del miglior cantautore del XX secolo, non legge i testi, non ascolta le canzoni, non conosce nemmeno la voce di Kurt, ma si fida dei televisori, si fida delle leggende, si fida delle apparenze.
Il mondo non farebbe così schifo se non fosse così.
Come ha detto il famoso musicologo Azerrad: “Qualsiasi cosa fu ante o post Nirvana.”
Da quel che io ho capito Kurt Donald Cobain era un ragazzo come tanti che mi assomigliava perché aveva un sogno e si sforzava di lottare per raggiungerlo: lui voleva diventare una rockstar.

 

 

Era un ragazzo triste perché i suoi genitori si erano divorziati quando lui aveva sette anni e non era mai riuscito a digerire l’accaduto: la sua vita era cambiata radicalmente, aveva perso la felicità, aveva perso tutti i suoi punti di riferimento (famosa la scritta fatta da Kurt sui muri di casa sua: “Odio mia madre, odio mio padre, mio padre odia mia madre, mia madre odia mio padre, voglio solo essere triste”).
L’impegno di Kurt per far decollare i Nirvana è enorme ma sembra andare sprecato, fino a che, un giorno, si sveglia ed è famoso: Smells like teen spirit ha un successo planetario, viene passata ogni 5 minuti su Mtv e, stranamente, tutto cambia ma in peggio.
Cobain spiegava la sua tossicodipendenza come la ricerca momentanea di una soluzione ad un problema di stomaco che, poi, gli era ovviamente sfuggita di mano:

 

“Da 3 anni soffro di un problema di stomaco che fa una gran fatica a guarire e che,a proposito, non è legato allo stress, il che significa che non è un’ulcera perché non c’è un andamento preciso del bruciore, delle nausee e del dolore nella parte superiore dell’ addome. Non riesco mai a prevedere quando succederà.
Posso essere a casa nell’atmosfera più rilassata a sorseggiare acqua di fonte. Niente stress niente difficoltà, e poi pam! l’ora della fucilata allo stomaco.
Poi posso suonare 1000 concerti dal vivo di fila ,ingoiare acido borico, rilasciare un triliardo di interviste televisive e non fare neanche un rutto.

 

Ciò ha lasciato i medici senza idee tranne la solita: diamo a Kurt una pillola per l’ulcera e ficchiamogli in gola questo tubo di fibra ottica con la videocamera che si chiama endoscopia per la terza volta e vediamo cosa c’e dentro. Lo stomaco è estremamente gonfio e rosso, sentirà dolore.
Provi a mangiare del gelato….
PER FAVORE, SIGNORE, fanculo i dischi, fammi dono di una malattia dello stomaco tutta mia, inguaribile e rara che prenda il mio nome. E il titolo del nostro prossimo LP doppio sarà LA MALATTIA DI COBAIN.”
Mi sembra doveroso trascrivere anche un breve passo dei diari di Kurt in cui descrive le origini della sua tossicodipendenza:
“Ho provato l’eroina per la prima volta nel 1987 ad Aberdeen e l’ho usata per circa 10 volte ancora dall’’87 al ’90. Quando siamo tornati dal nostro secondo tour europeo con i Sonic Youth ho deciso di farne uso quotidiano per un persistente problema di stomaco di cui soffrivo da cinque anni e che mi aveva letteralmente portato sulla soglia del suicidio. Tutti i giorni per 5 anni della mia vita ogni volta che inghiottivo un boccone di cibo provavo un violento dolore alla bocca dello stomaco. Il dolore si era fatto ancora più forte nel corso del tour. […] Ho consultato 15 medici diversi e ho provato una cinquantina di medicine per l’ulcera. L’unica cosa che funzionasse erano degli oppiacei pesanti. C’erano volte in cui rimanevo bloccato a letto per giorni in preda al vomito e al digiuno forzato. Quindi, ho deciso che, dal momento che mi sentivo un drogato, a quel punto valeva la pena esserlo.”
Badate bene, non sto cercando di giustificare nessuno: sto solo tentando di spiegare quanto la realtà alle volte possa essere contorta. Quanto le nostre scelte sbagliate siano dettate da circostanze dolorose e che ci sembrano talmente insopportabili da dover essere risolte il prima possibile, ovviamente con metodi molto spesso errati.
Empatizzo particolarmente con Kurt perché anche io soffro di gastrite nervosa: non è la stessa cosa certo, non è così fastidiosa come un’infiammazione vera e propria ma, in passato, ha reso la mia vita un inferno. Non posso negare che sarei ricorsa a qualsiasi rimedio per riuscire a non sentire più la sensazione terribile che mi provocava.
Empatizzo con Kurt perché aveva ventisette anni e tutti gli occhi del mondo puntati addosso. Nessuno ha protetto la sua fragilità: il mondo della musica e della discografia teneva una farfalla sputa soldi tra le mani e nessuno ha pensato che schiacciandola non avrebbe volato mai più.
Si dice che Kurt sia stato ucciso, si dice che la Love lo facesse pedinare perché aveva espresso la volontà di toglierla dal testamento: io dico che Kurt si è ucciso perché il suo rapporto viscerale con la musica era finito.
La sua anima libera, fuori dagli schemi, la sua vita da isolato, da outcast, da individuo borderline era finita: all’arrivo del successo si era accorto che non era quello che voleva. Ma era troppo tardi: non si può tornare indietro, non si possono cancellare le tracce della propria grandezza.
Si è ucciso perché la vera donna della sua vita, la musica, non lo amava più.

 

Quindi, quando parlate di Kurt, ricordatevi di quello che era, ricordate che era un ragazzo, solo un ragazzo che amava la musica.