Sono cresciuta a pane e cronaca nera. Anzi, niente pane, visto che, da che ho ricordi, sono sempre stata a dieta. Nonostante ciò, non sono amante dei libri noir, dei gialli o dei thriller, almeno non particolarmente, quello che io cerco è il brivido della realtà, la realtà che supera anche la più fervida delle fantasie, la verità nuda che fa paura, che affascina irrimediabilmente. Programmi televisivi come Storie Maledette, Mistero in Blu e Telefono Giallo sono stati e sono tutt’ora (grazie a Youtube) una valida compagnia nelle notti insonni: non curano certo l’insonnia visto che il loro intento è quello di sviluppare in noi quesiti, domande e anche un po’ di timore del prossimo, però, mi hanno aiutato, negli anni, ad avere una concezione molto più analitica e oserei dire anche pietosa del Male con la M maiuscola.

Sì, perché negli anni ho cominciato a cercare di comprendere i colpevoli, di immedesimarmi in loro (è un brutto gioco questo, don’t try this at home!) ed entrando pian piano nei meandri della loro psiche, studiando le loro vite e quelli che potremmo definire disagi dati dall’ambiente umano e sociale in cui sono vissuti, ho iniziato ad offrire loro non tanto giustificazioni quanto una chance di esistenza oltre i loro crimini.

Tuttavia, ci sono casi in cui la colpevolezza è talmente grande e il crimine così efferato che non si possono concedere né sconti né scusanti: ma serve, essenzialmente, ragionare su cosa abbia spinto gli assassini ad uccidere. La pazzia? Si può davvero ridurre tutto a questo? E che grado di pazzia è necessario per arrivare ad ammazzare spietatamente un altro essere umano?

Queste sono le domande che mi pongo anche oggi, mentre, per preparare questo articolo, scorro i nomi delle serial killer donne più prolifiche e spietate della storia. Non voglio limitarmi a raccontarvi le loro vite ma mi piacerebbe entrare in profondità, scandagliare i motivi che le hanno portate a compiere i loro delitti.

Certe volte, e ve ne accorgerete, non ce ne sono, tutto rimane in sospeso, come un gesto irragionevole compiuto a danni di altri che non dà mai pace a chi lo ha ricevuto.

Perché dare un senso alle cose è forse il vero senso della nostra vita e quando questo senso si perde o viene a mancare siamo noi stessi a sentirci smarriti.

Ho scelto di scrivere di tre donne serial killer, ormai, diventate storiche, le cui storie mi hanno segnato mio malgrado, storie di perfidia, certo, ma anche di estrema solitudine.

 

LEONARDA CIANCIULLI, LA SAPONIFICATRICE DI CORREGGIO

Leonarda Cianciulli

Quando confessò Leonarda Cianciulli disse di aver bollito nella soda caustica le sue tre vittime a 300° e di averne, poi, fatto sapone, salvo prima utilizzare il loro sangue per cuocere dei buonissimi biscotti. Immagino già lo stupore inorridito dei magistrati che è anche il mio (se non fosse che, ormai, dopo anni di cronaca nera, sono abituata a simili bizzarrie).

Le vittime erano tutte donne sulla cinquantina, insoddisfatte, che desideravano una vita diversa, una carriera, un uomo che le amasse.

La Cianciulli che verrà più volte descritta come un’abilissima manipolatrice, le convincerà a scrivere di loro pugno cartoline per dare l’addio ai loro cari salvo poi ucciderle, farle a pezzi e, come ho già detto, metterle in pentola.

Il problema della Cianciulli non era tanto l’avidità come è stato detto, bensì una credenza cieca e quanto mai ossessionante in quella che potremmo definire il potere della magia nera.

Maledetta dalla madre prima del matrimonio e sobillata da una cartomante la quale le rivelerà che non potrà mai avere figli, la Cianciulli inizia a credere in queste superstizioni soprattutto perché perde 14 figli (dei quali 11 già partoriti) consecutivi, salvo poi metterne al mondo quattro.

L’ossessione più grande della Cianciulli era i suoi quattro figli, ai quali era attaccata in modo morboso, malato, soprattutto al figlio più grande, Giuseppe, che quando riceve la lettera di richiamo al fronte (sì, siamo ai tempi della seconda guerra mondiale) scatena la sua pazzia.

È nel sacrificio umano che la Cianciulli vede la risoluzione dei suoi problemi e lo scriverà nel suo lunghissimo memoriale “Confessioni di un’anima amareggiata”: le sue credenze, i suoi rituali magici nemmeno troppo nascosti si tramutano, da qualcosa di bizzarro ma innocuo, in un comportamento letale per le tre donne che deciderà di irretire e, poi, uccidere saponificandole.

« Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche, inghiottite una dopo l’altra dalla terra nera… per questo ho studiato magia, ho letto i libri che parlano di chiromanzia, astronomia, scongiuri, fatture, spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli. »

Capiamo bene, quindi, come, anche in questo caso, il delitto nasca da un disagio psichico e sia ideato da una mente annebbiata da paure, ansie e ossessioni ataviche.

La maledizione della madre, la morte di 14 figli e, infine, la chiamata al fronte dell’amatissimo primogenito portano Leonarda a raggiungere e travalicare il limite della razionalità.

La condannarono pur consci della seminfermità mentale: oggi, per fortuna, esiste quella struttura magnifica che è l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere dove vengono accolte tutte quelle donne colpevoli di delitti mostruosi (molto spesso figlicidi) dove, però, possono seguire percorsi di cure mediche psichiatriche e, se non riuscire a perdonarsi, possono almeno capire il perché dei loro atroci delitti, possono, senza cercare giustificazioni, trovare la pace. Senza né sbarre né celle.

 

AILEEN WUORNOS

Aileen Wuornos

Aileen Wuornos era una prostituta. Si prostituiva perché doveva mantenersi, essendo stata cacciata dalla famiglia in tenera età. Forse si prostituiva, come penserete in tanti, perché era la via più facile. Io, invece, penso che, alcune persone siano costrette dalla vita a scegliere le strade peggiori, le strade difficili, quelle che ti obbligano a mercificare la dignità e il rispetto per te stessa.

Ha ucciso 7 uomini, Aileen, con freddezza, perché avevano tentato di violentarla. Direte voi, perché so che lo direte, “non si può violentare una prostituta”, io credo invece di sì. Ho sempre creduto in questa donna, morta per iniezione letale nel 2002, e anche quando ho visto il film “Monster”, non ho potuto fare a meno di solidarizzare con lei.

Una vita d’inferno la sua, costellata di incubi: pochi soldi, poco amore e poca fortuna. Anche quando si innamora di Tyria Moore, una cameriera conosciuta in un bar frequentato da omosessuali, l’amore diventa sacrificio estremo, diventa martirio. Chissà perché uccide Aileen. Forse perché è solo una psicopatica o forse perché i suoi delitti sono la sua personale rivincita nei confronti di una vita di disperazione e senza via d’uscita. Una vita d’odio nei confronti degli uomini dai quali è stata usata, mortificata, umiliata.

Tante volte mi capita di passare, di notte anche non troppo tardi, per le strade e di vedere queste donne sul ciglio della strada, donne per cui le stagioni non cambiano mai perché loro saranno sempre addobbate con abiti succinti, luccicanti, ben visibili, come tristi manichini senza anima, senza sangue. Tante volte mi fermo a pensare alle loro vite, al perché debbano vendersi, perché debbano finire i loro giorni in strada e tante volte la risposta è che sono costrette dalla vita, una vita che non è stata buona con loro.

In certi casi la vita, infatti, può essere maligna e così è stato per Aileen Wuornos, vittima prima che carnefice. E nella lotta fatale che sussiste sempre tra Bene e Male nel mondo ma anche dentro ad una sola persona, alla stessa persona, io ho sempre capito o, almeno, cercato di capire, i più deboli, quelli che fanno vincere il Male sulla loro parte buona e, mettendomi nei loro panni, li ho sempre guardati con empatia, pietà, compassione.

“Vorrei solo dire che navigherò con The Rock e che tornerò con Gesù, come in Independence Day, il 6 giugno, come il film, con la grande astronave madre e tutto il resto. Tornerò”. (Ultime parole di Aileen Wuornos)

 

SONYA CALEFFI, L’ANGELO DELLA MORTE

Sonya Caleffi

Li chiamano “Angeli della morte” perché uccidono per alleviare le sofferenze di persone già malate. Nel caso di Sonya Caleffi, però, l’istinto di uccidere è dettato dalla volontà di poter “salvare” le vittime, dimostrando le proprie capacità professionali.

Sonya è un’infermiera di esperienza quando uccide per la prima volta e lo farà per altre 5 volte, anche se si ritiene che gli omicidi commessi siano almeno 18.

Vittime della sua volontà di primeggiare, probabilmente, della sua strenua ricerca dei complimenti dei suoi superiori, del suo bisogno di essere accettata, amata, benvoluta.

Sonya Caleffi ha ucciso iniettando aria nelle vene dei suoi pazienti che, quindi, sono morti di embolia.

“Non è mai stata mia intenzione provocare la morte, mai ho premeditato nemmeno lontanamente le mie azioni. In seguito a tali episodi ho ricominciato a stare male psicologicamente, chiedo di essere aiutata”.

Ma Sonya non è solo un’assassina, è anche una donna con notevoli fragilità: fin da piccola soffre di depressione e di anoressia nervosa, diventando, così, un’adulta nevrotica, triste, che vive reclusa in casa, quando non lavora e che adora leggere romanzi sui disturbi alimentari e sul suicidio (soprattutto, “Veronika decide di morire” di Coelho).

Ovunque vada muore qualcuno e la cosa desta l’ironia delle colleghe che la sbeffeggiano e la isolano, fino a quando Sonya non sale ai “disonori” della cronaca come l’infermiera killer.

Tra ritrattazioni, confessioni e amare mezze verità i magistrati cominciano a tracciare il profilo di una donna fragile in cerca di riscatto, una personalità lucida, però, che ha agito con freddezza e calcolo.

Chiunque sia stato vittima di depressione o di disturbi alimentari sa quanto sia dura vivere in quei panni scomodi, di troppe taglie in più. Certo, non esistono giustificazioni per simili atti ma una domanda è necessaria: nella storia criminologica mondiale, gli angeli della morte sono stati tantissimi e sono assassini particolari perché si accaniscono su persone già sofferenti o, comunque, in un momento di debolezza, con determinazione ed efferatezza, perché, allora, non rendere obbligatorio ai medici e agli infermieri un colloquio con uno psicoterapeuta prima dell’assunzione? Perché non verificare il loro stato di solidità mentale prima di farli agire sulle vite e sulla morte dei pazienti?

Ecco, quindi, le storie di tre donne molto diverse ma vittime dello stesso delirio di onnipotenza, di potere sulla vita e la morte delle altre persone. Spero che questo articolo possa essere servito a saziare un po’ di malata curiosità che, attualmente, fa innalzare lo share di programmi televisivi basati sulla cronaca nera ma anche a scatenare in voi un sentimento diverso, un po’ pietoso, un po’ razionale che non condanna in modo cieco ma salva, se non perdonando, almeno, comprendendo.