Stamattina ho iniziato a leggere un libro interessante.
S’intitola “Distacchi” ed è stato scritto nel lontano 1987 da una certa Judith Viorst.
La descrizione su IBS parlava di un saggio fondamentale per riuscire ad imparare ad eliminare il senso di perdita che accompagna le nostre vite. Irrimediabilmente.
Seguendo il ragionamento della Viorst, siamo tutti traumatizzati dalla perdita, dall’abbandono: in effetti, da quando nasciamo a quando moriamo le persone che ci lasciano o, ancor peggio, le persone da cui ci è necessario staccarci per nostra volontà sono moltissime.
L’amore è l’ultimo dei nostri drammi.
Parrebbe, invece, che nostra madre fosse un problema ben peggiore: eh, sì, perché (come io ho sempre amato sproloquiare in giro con l’unico risultato di essere ricoperta da risate a crepapelle) a quanto pare l’amore non sarebbe altro che la ricerca spasmodica di ritornare a riagganciare l’antico rapporto madre-figlio del quale siamo stati privati (in maniera graduale oppure violenta, questo dipende dalle situazioni.)
Questo non significa che noi sogniamo di sposarci nostra madre, ovviamente; ma degli studi hanno dimostrato che il legame genitoriale è una specie di “eterno ritorno” nella vita di ognuno di noi, qualcosa a cui tendiamo sempre e comunque, un vuoto angoscioso nascosto dentro di noi.
L’abbandono del bambino da parte della madre (non sto parlando di casi limite, sto parlando anche di semplici allontanamenti per cause lavorative o di altra natura) comporterebbe un trauma insanabile: dapprima il bambino soffre ma coltiva la speranza di veder ritornare un giorno sua madre, poi, non ci crede più e diventa un bambino disperato, infine, si isola dal mondo, decide che aver amato qualcuno lo ha fatto soffrire e che non vuole mai più ripetere l’esperienza e, così, giunge alla fase del distacco.
Dopo questa ultima fase, la madre può anche tornare ma non sarà più accolta a braccia aperte: il bambino si nasconderà, anzi, tra le gonne della babysitter di turno.
Questa ferita apparentemente guaribile rimarrà, invece, per sempre e al primo fallimento futuro, la vita del bambino, ormai diventato uomo, si accartoccerà su se stessa: depressione, crisi d’ansia, attacchi di panico sono il male del secolo, no?
E il nostro secolo, insieme all’emancipazione della donna, ha portato alla ribalta (e per fortuna!) un esercito di donne lavoratrici con figli (molto soli) a carico.
Dico fin da subito che la mia attuale idea è molto poco condivisa e, forse, condivisibile: sono una figlia traumatizzata, dovete comprendermi.
Anche io sono stata abbandonata dai miei (mefistofelici) nonni, anche io ho avuto una mamma lavoratrice. Da una parte, per come sono, focalizzata al successo, vittima delle mie stesse enormi aspirazioni, alla continua ricerca di emancipazioni, mi sarei vergognata di avere una madre casalinga, lo dico in tutta franchezza ma, dall’altra, mi dico anche che un figlio è una scelta e non un pacco postale.
Il mondo si dovrebbe dividere in madri e donne in carriera per essere un mondo felice ma questa, come il comunismo, è un’utopia.
(sulla mia idea di compromesso vi rimando al manuale scritto da me: “NON SO COSA DIAVOLO SIA IL COMPROMESSO”)
Insomma, più leggo la Viorst e più mi rendo conto di quanto la qualifica di madre non mi attiri affatto: siamo sicuri che la vita in sé e per sé sia la scelta migliore in ogni caso?
Certo, se tua madre non ti avesse messo al mondo e traumatizzato (perché succede a tutte le madri di traumatizzare involontariamente i figli, è inevitabile) non ti avrebbe nemmeno dato l’occasione di dimostrare la tua capacità di superare le difficoltà ma, forse, se potessi tornare indietro, alla prenascita, io preferirei non dover soffrire, preferirei la non-vita ad una vita di sofferenze.
“L’assenza non rende più appassionati, ma più freddi.
E se questa assenza è, di fatto, l’assenza di una stabile figura parentale, se l’infanzia è una serie di separazioni, che cosa accade? La psicoanalista Selma Fraiberg racconta di un ragazzo di sedici anni della Contea di Alameda che chiese mezzo milione di dollari di risarcimento per essere stato affidato a sedici famiglie diverse. Qual era esattamente il danno in base al quale aveva deciso di fare la causa? La sua risposta fu: – E’ come una cicatrice nel cervello.” (Distacchi – Judith Viorst)