Come tutto ebbe inizio: la scomparsa di Lidia Macchi
Siamo a Varese, in pieno inverno, per la precisione è il 5 gennaio 1987.
Lidia Macchi è stata tutto il giorno a casa da sola a studiare con la nonna, i genitori sono in montagna ma, quella sera, tornano in anticipo.
Lidia, che ha 21 anni e studia Giurisprudenza a Milano, li accoglie a braccia aperte. Tutti, compreso il fratellino di 16 mesi che la ragazza ama sopra ogni cosa e che ha soprannominato “Pescolino”. L’evento è inaspettato ma cade anche a fagiolo poiché Lidia chiede al padre di poter prendere la panda bianca di famiglia e andare a fare visita all’amica Paola Munari, ricoverata nell’ospedale di Cittiglio a causa di un incidente d’auto.
Il padre Giorgio acconsente, però, le affida dieci mila lire per fare benzina poiché l’auto è in riserva: Lidia verso le sette di sera parte, sono solo pochi chilometri e arriverà a destinazione.
Quella sera la ragazza è attesa per cena, verso le otto e mezza, ma non farà mai ritorno: i genitori preoccupati allertano le forze di polizia, il signor Macchi parte alla ricerca della figlia dapprima nella zona dell’ospedale e, poi, lungo i boschi e le montagne di Varese ma di Lidia nessuna traccia.
L’ultimo avvistamento di Lidia avviene da parte di un’infermiera dell’ospedale di Cittiglio alle otto e mezza, la stessa amica convalescente, Paola, dirà di averla vista e che la ragazza l’aveva lasciata in fretta e furia perchè “era in ritardo per la cena”.
Lidia è una ragazza perbene: molto religiosa, fa parte del movimento di Comunione e Liberazione, è capo scout, annota nel suo diario ogni sua giornata e le sue parole sono veri e propri canti di amore per Dio, per la vita, per l’amore.
Il ritrovamento di Lidia Macchi
La mattina dopo una piccola legione di amici di Lidia, suddivisa in gruppetti, setaccia la zona di Varese e Cittiglio e, sfortunatamente, poco dopo, viene ritrovata la Panda bianca di Lidia: è in una strada sterrata che termina in un cementificio, una zona ben poco raccomandabile, la località si chiama San Spinin ed è un ritrovo per sesso a pagamento, tossicodipendenti e rifiuti sociali. Accanto alla macchina, a un metro di distanza, sul lato del passeggero, giace disteso a terra e coperto da un cartone, il cadavere di Lidia che è stato colpito da 29 coltellate.
La zona del ritrovamento è poco distante dall’ospedale tanto che la macchina di Lidia ha ancora benzina disponibile e le dieci mila lire vengono ritrovate nelle tasche dei jeans della ragazza.
L’arma del delitto non si trova ma la cosa più terrificante è che Lidia sembra aver avuto un rapporto sessuale: conoscendo la fede della ragazza e l’importanza che la stessa dava alla sua verginità si ritiene che l’amplesso non sia stato consensuale.
Lidia era vestita normalmente, così com’era uscita di casa: jeans chiari, giubbotto blu e stivali, appena comprati, di colore marrone lucido. Ciò che è diverso sono le 10 coltellate alla schiena e le restanti 19 su petto e collo. Quella sul collo, probabilmente, è la ferita mortale.
Nella borsa, ritrovata sotto al corpo, ci sono due fogli: il primo contiene una celebre poesia di Cesare Pavese (riportiamo il testo qui sotto);
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.” (C. Pavese)
Il secondo è un foglietto a quadretti scritto da Lidia che parla di un amore controverso, terreno e impossibile.
“Dimmi perché sorridi, perché il tuo sguardo è così dolce, luminoso e reale, perché sollevi gli occhi al cielo e perché io non posso che arrendermi alla realtà […] Non so se ci sarà un futuro insieme per noi. […] Signore, lasciami in pace: vai a tormentare qualcuno più disponibile e più bravo di me”. (CIT.)
Le indagini
Le indagini iniziano fin da subito sotto la guida del capo della mobile Paolillo ma si va a tentoni: si pensa dapprima a un balordo (un tipo poco raccomandabile era stato visto girovagare nel parcheggio dell’ospedale e aveva molestato alcune persone), si valutano, poi, gli alibi di alcuni amici e persone vicine a Lidia e, poi, poco prima del giorno del funerale, celebrato il 10 gennaio 1987, si arriva ad una svolta; una lettera viene recapitata a casa Macchi, troppo presto perchè sia il gesto di un mitomane, ed è una lettera densa di riferimenti simbolici e biblici intitolata “In morte di un’amica” che sia il padre Giorgio che gli inquirenti sono convinti sia potuta essere stata scritta solo dal vero assassino.
La studentessa modello dagli occhi chiari e dai capelli neri, però, non nasconde nessuno scheletro nell’armadio eppure quel riferimento “al velo strappato nella notte stellata” sembra proprio un chiaro rimando alla verginità di Lidia che quella terribile sera è stata divelta da un assassino. Una sera in cui si vedevano chiaramente le stelle luccicare nel cielo, testimoni di un orribile crimine.
Il padre Giorgio infatti testimonierà che Lidia pur di conservare la sua verginità si sarebbe fatta ammazzare.
Il caso Lidia Macchi è ormai internazionale tanto che, per la prima volta, dei campioni vengono inviati in Inghilterra per l’analisi del DNA e che in televisione, durante un programma condotto da Enzo Tortora, si spingeranno tutte le persone residenti a Varese a sottoporsi ai test per escludere il loro coinvolgimento.
Tutto ciò non porterà a nulla e il caso diventerà uno dei molti cold case d’Italia.
Torniamo, però, per un attimo alle testimonianze che saranno cruciali anni dopo: una donna, dopo l’evento, dirà di aver visto una macchina bianca di grossa cilindrata parcheggiata all’ospedale vicino ad una Panda bianca e che poco dopo si era allontanata (forse il guidatore era salito sulla Panda?), altre tre donne avevano denunciato la presenza del famoso molestatore fornendo un identikit: un uomo con folta capigliatura e vistosi baffi e, anche lui, con una macchina bianca.
Ricordiamo che in quel primo periodo vennero sentiti gli alibi di un ex compagno di liceo di Lidia, Giuseppe Sotgiu, che quella sera disse di essere stato al cinema con due ragazzi.
Venne sentito anche Stefano Binda, sempre ex compagno di Liceo di Lidia, che dichiarò di essere stato in montagna in quei giorni, nella zona piemontese.
L’unico vero indagato, però, divenne Don Antonio Costabile che oltre ad aver tenuto comportamenti un po’ eccentrici (avrebbe voluto benedire la salma di Lidia direttamente sulla scena del rinvenimento), offrì un alibi tendenzialmente falso e venne coperto da altri sacerdoti a cui venne contestata la falsa testimonianza, ma, in seguito, anche la sua pista divenne un vicolo cieco.
Passano 24 lunghi anni…
Passarono 24 anni senza sapere nulla e il caso venne archiviato fino al 2011.
Anno in cui compare sulla scena Giuseppe Piccolomo: un artigiano della provincia di Corato che venne indagato con l’accusa di essere l’assassino di Lidia Macchi poiché le figlie testimoniarono che diceva loro spesso “Guardate che vi faccio fare la fine di Lidia Macchi”.
Venne, perciò, riesumato l’identikit, il volto era molto simile a quello di Piccolomo da giovane, la macchina dei tempi era un’auto bianca di grossa cilindrata e, così, venne indagato e vennero eseguiti i test del DNA sulla busta della lettera e su un capello trovato sul bavero di Lidia.
I test diedero esito negativo.
Entra in scena Stefano Binda
Nel 2015, però, si ebbe una nuova svolta ed entrò in scena Stefano Binda.
Patrizia Bianchi, ex compagna di liceo di Binda con cui aveva coltivato un’amicizia molto stretta, quasi un legame sentimentale platonico, vide in una trasmissione la lettera “In morte di un’amica” ed ebbe una folgorazione: si rese conto che quella grafia era di Stefano Binda al 100%.
Ma chi è Stefano Binda?
Potremmo definirlo un poeta maledetto, una persona di altissima cultura, riservata, che in giovinezza ha incontrato le sostanze stupefacenti e che ora vive con la madre e lavoricchia come insegnante per stranieri.
Binda fin da subito si dichiara innocente e fornisce lettere e cartoline per una perizia grafologica: l’esito della perizia, però, sembra inchiodarlo e dopo 28 anni c’è un nuovo indagato per omicidio.
La casa di Binda viene perquisita, viene studiata la sua agenda del tempo dove compare il nome di Lidia e alcuni simboli che sembrano essere presenti anche nella ormai celebre lettera.
Binda dice che quei simboli sono i simboli medievaleggianti di Comunione e Liberazione ma Patrizia Bianchi lo inchioda nuovamente ricordando che Cesare Pavese era un vero e proprio cavallo di battaglia dell’uomo in gioventù. Inoltre, Binda aveva una 131 bianca e le testimonianze del tempo gli sono tutte contrarie.
Il 15 gennaio 2016 Binda viene arrestato ma si capisce fin da subito che tutto l’iter processuale sarà basato su suggestioni e non su indizi.
Binda, da parte sua, respinge ogni accusa e, anzi, è ben disposto a dare il DNA ma la comparazione è impossibile perché nel 2000 le prove del caso sono andate distrutte, emerge un’unica prova biologica (un capello che offre solo il dna mitocondriale) e che non appartiene a Binda, non era il suo DNA.
Il processo a Stefano Binda
Il 12 aprile 2017 si apre un processo senza prove basato sulle suggestioni, partono le perizie grafologiche e criminologiche.
Franco Posa, criminologo, ricostruisce i fatti di quella sera:
Lidia Macchi era arrivata con la propria auto e fu colpita inizialmente all’interno della vettura, poi si aprì la portiera e Lidia scese dalla parte opposta dell’automobile. Venne colpita con ferocia nella parte posteriore del corpo quando lei era già stesa a terra.
Sul cadavero di Lidia vennero trovate impronte dei sassi del terriccio: secondo il criminologo, quindi, vi è stata una forza legata all’arma e una forza di pressione sul corpo, il luogo dell’omicidio, comunque, è sicuramente quello del ritrovamento.
Potrebbero esserci, secondo l’accusa, diversi moventi per Binda: la dipendenza da droghe che lo aveva reso fuori di testa, oppure una crisi di astinenza che aveva portato alle medesime conseguenze, o ancora un movente passionale a causa di un gran rifiuto.
L’ alibi di essere a Pragelato, in Piemonte, nei giorni in cui Lidia veniva uccisa non regge poiché un testimone si ricorda che era al bar con l’imputato in quei giorni, anche se altri non ricordano la sua presenza.
Il 24 aprile 2018 avviene una sentenza clamorosa: ergastolo in primo grado.
Clamorosa perché? Non c’è una prova regina, anzi, non si va proprio oltre il ragionevole dubbio, la difesa, per questi motivi, ricorre in appello. L’11 luglio 2019 il confronto tra le due consulenti grafologiche ha un esito insperato: la grafia non corrisponde, ma si era stati tratti in inganno dallo stampatello.
Il 24 luglio 2019 arriva la sentenza di assoluzione con formula piena in appello: la Corte ha cambiato punto di vista; impossibile dimostrare che Binda fosse lì, impossibile ritenere realistico un qualsiasi movente, inadatto dare per prove delle suggestioni.
Così Stefano Binda esce dal carcere, dopo 3 anni di detenzione, e può tirare un vero sospiro di sollievo solo il 27 gennaio 2021 quando la corte di cassazione conferma l’assoluzione piena.
La morte di Lidia Macchi resta un Cold Case
La morte di Lidia Macchi torna nella lista dei cold case più misteriosi d’Italia: la distruzione delle prove, la mancanza di un movente certo e i tanti dubbi ci portano a ritenere che scopriremo il vero assassino solo se sarà lui stesso ad avere un rimorso di coscienza e a dire la verità.
Sono storie dure da digerire perché tutti noi daremmo qualsiasi cosa per scoprire chi ha portato morte in una vita così luminosa e donato un terribile fardello ad una famiglia che ha avuto l’ergastolo fin da quel 5 gennaio 1987 e lo porterà per sempre addosso.
Io, sinceramente, ancora spero che quel maledetto colpevole si faccia avanti e dica la verità, solo in quel momento tutto questo avrà avuto un senso e si potrà porre la parola fine alla tragica morte di Lidia.