“Penso che la parte più difficile da affrontare con il passare degli anni, con l’invecchiare, sia imparare a convivere con il fatto che a questo mondo ci siano tanto dolore e tanta bellezza, uno di fianco all’altra.” (Bruce Springsteen)

Se io fossi un uomo vorrei essere come Bruce Springsteen.

Obama, da uomo intelligente qual è, ha capito tutto infatti: non ci sono storie, per diventare dei grandi uomini bisogna essere o lui o Presidenti degli Stati Uniti.

Bruce Springsteen è un profeta, il Che Guevara del rock, è la star proletaria, è la reincarnazione di Gesù Cristo con in mano una chitarra: se non fosse tutto questo non si spiegherebbe perché non si possa fare a meno, dopo averlo incontrato, di mollare tutto e seguirlo. Per sempre.
Questo pescatore d’anime io l’ho conosciuto bene all’incirca tre anni fa: studiavo per la maturità e mi foravo le orecchie con “Born to run” ascoltata a ripetizione a volume altissimo.

Devo ammettere che portare a termine il mio folle progetto “panico” stavolta è stato molto difficile: Bruce Springsteen è uno dei musicisti più prolifici della storia del rock.

Più di quindici album, una sterminata quantità di live, una marea di video, concerti, registrazioni legittime e illegittime; ma con la calma e la lucidità che contraddistingue gli ossessionati, ho scovato ad uno ad uno gli album (la maggior parte, per fortuna, tra i vecchi 45 giri di mio padre) e li ho ascoltati uno ad uno, imparati a memoria uno ad uno. Ho studiato i testi, le traduzioni e ho scoperto la poesia proletaria di un artista senza eguali.

Ho scoperto che il Boss odia essere chiamato Boss: il soprannome deriva dal periodo in cui Bruce suonava insieme alla sua band per tutti i locali di New York ed era sempre lui a dover farsi dare i soldi dai proprietari. Era lui il capo, il Boss.

Ma la sua personalità non ha nulla a che fare con questi protagonismi leggendari: per uno come lui, che ha sempre lavorato in squadra e che in gruppo ha trovato la sua vera dimensione artistica, fare la primadonna non ha mai avuto alcun senso.

Il percorso di Bruce Springsteen è quello di un ragazzo americano (di origini campane, però, da parte di madre) che esce dalla periferia senza dimenticarsi di essa.

Senza scordarsi mai delle proprie origini, del proprio passato.

Nessuno ha raccontato meglio di lui l’infrangersi del sogno americano: dapprima attraverso le piccole storie di provincia e, poi, nell’apoteosi di “The Rising”, un album interamente dedicato alla tragedia dell’11 settembre.

Ormai, risulta difficile ascoltare l’ultimo Bruce Springsteen senza essere americani: io, almeno, ritengo di riuscire a percepire e a comprendere fino in fondo solamente la metà di quello che Bruce vorrebbe comunicare.

Negli ultimi anni il suo impegno politico si è fatto sempre più forte e, nonostante rimanga sempre l’artista straniero più amato dagli italiani (almeno per un recente sondaggio di Vanity Fair) la sua attenzione alla realtà americana e al suo popolo è palpabile.

Parlare di Bruce è per me come parlare di Yahweh per un ebreo: non lo dovrei nemmeno pronunciare il suo nome.

La mia stima per lui supera i limiti dell’immaginabile: se ascolto con attenzione “We are the world” è molto probabile che mi metta a piangere dalla felicità.

Recentemente ho scoperto che, negli anni ’80, Bruce ha vissuto un periodo di profonda depressione dal quale è uscito faticosamente: l’ha fatto sapere quasi trent’anni dopo e, difatti, nessuno se lo sarebbe mai aspettato.

Ai nostri occhi incantati il cantastorie Robin Hood non può cadere né smettere di far volare le persone con le sue canzoni eppure l’insegnamento di questa faccenda è ancora più forte: cadere è possibile anzi facile, sapersi rialzare invece, è la vera conquista.

Bruce è il primo testimone di un rock (anche se il suo è un sound tutto particolare che unisce molto spesso anche R’n’B e, soprattutto, Folk) che ha smesso di autodistruggersi, di un talento puro, cristallino, mai arrugginito dai vizi, mai, nemmeno per un attimo, annacquato dalle droghe. Nemmeno l’avanzare dell’età ci fa niente al profeta americano: Bruce che ha quasi sessantacinque anni, ne dimostra appena cinquanta.

Amarsi non significa non essere anche sensibili alle tragedie del mondo: significa accettarle, guardare in fondo all’abisso senza lasciare che, però, alla fine, sia l’abisso a guardare dentro di noi.

Le brutte storie che Bruce racconta non hanno intaccato la sua speranza.
Non devono intaccare nemmeno la nostra.
Nietzsche non aveva ragione.

CONSIGLI MUSICALI

Premetto che il mio album preferito è quello più disprezzato dalla critica, ossia, “Tunnel of Love.”

Le canzoni più belle dell’album sono:

Ain’t Got You

Tougher Than the Rest

Brilliant Disguise.

L’album che amo di meno è “The Ghost of Tom Joad” ma forse anche perché non amo particolarmente Steinbeck.

(Molto spesso, però, trovare le ragioni delle proprie preferenze è difficile, per non dire insensato.)

La mia canzone preferita in assoluto, però, rimane “Drive all night”, contenuta nello stupendo album “The River” (non posso farvi un elenco delle migliori tracce perché dovrei metterle quasi tutte.)

Ma se di Bruce non conoscete nulla e volete iniziare a farvi una cultura su di lui, il mio consiglio è di iniziare da “Born to run”:l’anima del vero Boss è contenuta interamente all’interno di “Thunder road”.

L’album che la critica ha sempre osannato è, invece, “Nebraska”, l’unico completamente acustico e senza il contributo della (solitamente immancabile) E Street Band.

Malinconico, profondo, bellissimo.

“Atlantic city” è la traccia migliore.

L’ultimo Bruce, invece, tralascia molto spesso l’individualità in favore di una protesta generazionale molto efficace e persuasiva: “Devils and Dust”, “Magic” ma, soprattutto, l’ultimo album, uscito nel 2012,“Wrecking Ball” consacrano l’artista da voce individuale a portavoce di una società, quella americana, che lotta per i propri ideali e supera le proprie, dolorose, sconfitte.

Anni ’90 a parte (secondo me un po’ deludenti), la discografia del Boss è tutta da passare al setaccio.

Buon ascolto!