Ho aspettato, ho aspettato, ho aspettato.
Con la voglia di scrivere e di dire la mia, ma ho aspettato.
Ho aspettato che sciacalli, webeti e tutti gli idioti che girano in rete dicessero la loro, che Selvaggia Lucarelli commentasse, che commentassero altre donne con post profondi, la frase mantra è stata “Siamo tutte un po’ Beatrice”.
Tutte un po’ sovrappeso, tutte con le smagliature sulle gambe e anche sull’anima, tutte imprigionate in un corpo che non ci piace, che vorremmo cambiare.
In realtà, dicendo questo, abbiamo tutte banalizzato la morte e il disagio profondo di Beatrice Inguì.
Io me la sono immaginata dinnanzi alla riga gialla della stazione di Torino, di mattino presto, con lo zainetto sulle spalle colmo di libri, me la sono immaginata intenta a squadrare la sua ombra, troppo grande rispetto a quella delle compagne di scuola, troppo ingombrante, dentro di me ho sentito le sue voci che le dicevano “Falla finita, buttati.”
E si è lanciata, mentre il treno passava.
Perché ho aspettato a parlare di Beatrice?
Per spiegare quanto nel profondo mi tocca questa questione: sono stata una bambina obesa, una ragazzina sovrappeso, un’adolescente magra, una donna grassa.
In tutti questi frangenti non mi sono mai accettata come individuo: ho subito vari traumi, dal perfido pediatra che mi diceva che dall’obesità infantile non ci si salva più, dalle compagne di classe sempre perfette nei loro jeans attillati mentre io indossavo sempre i pantaloni (larghi) della tuta, da mia madre e mio padre che ancora adesso mi indicano la pancia per sottolineare quanto io sia sbagliata, contronatura.
Se vado indietro con i ricordi ripenso a tutti quei vestiti che non mi sono entrati, alla frustrazione di non potermi permettere un bikini ma di optare per l’intero, alle prese in giro di mia madre che non perde occasione di ripetermi quanto io sia ridicola.
Sono spesso ridicola nei miei abiti, non so se la gente se ne accorge: il mio desiderio più grande è stato sempre quello di passare inosservata.
Mi rendo conto spesso che non è mai così: le donne che passano fissano le mie gambe che sbucano dalle gonne con scherno, gli uomini chi lo sa, ho smesso di guardarli e di venire ferita dai loro sguardi da un po’ di anni.
L’ultima cosa che ho detto a mia madre è stata: “Sai, per qualcuno sono anche bella”, l’ho detto non credendoci affatto, solo per salvarmi dalle sue accuse di obesità, di bruttezza, di disgusto.
Non lo so se sono anche bella per qualcuno, so che non sono bella per me.
Certe volte penso che potrei farla finita anche io, ma, poi, penso subito che non vorrei morire grassa, avere la bara su misura perché non entro in quelle standard, non vorrei che i medici e gli infermieri coprissero con un telo enorme il mio corpo enorme, non vorrei morire sapendo di aver deluso i miei genitori perché non sono riuscita a tornare “in forma”, come dicono loro, intendendo spesso e volentieri “come eri prima”.
La realtà è che non sono più quella di prima da tanto tempo: il mio passato mi ha portato il disordine alimentare come regalo, un regalo che ho accolto e che mi porto sulle spalle da un po’.
Ho fatto di tutto per cambiare: palestra, sport, dietologi, nutrizionisti, ho lottato, sono crollata, mi sono rialzata e ho ricominciato.
Non smetterò mai di fallire e di ricominciare ma per adesso resto così: con un corpo che è una crisalide ingombrante e che nasconde la farfalla che sono realmente.
Io non dico mai “devo dimagrire”, io dico sempre “devo tornare farfalla”.
Anche Beatrice aveva la possibilità di tornare farfalla, se l’è bruciata in un mattino in cui forse pioveva e forse il mondo era ancora più ostile di quanto sembrasse già in realtà.
Non conosco la sua vita, non so nulla di lei tranne che scriveva sul diario “Sono troppo grassa” ed effettivamente per gli standard della nostra società lo era.
Gli standard che premiamo la stupidità mentale camuffandola da amor proprio, gli standard per cui se non hai un fisico perfetto non vali niente, non sei né brava né intelligente, non sei niente.
Quante volte mi sono sentita dire da mia madre che non mi avrebbero assunta per nessun lavoro perché conta anche l’aspetto fisico.
Ora ho un lavoro ma continuo a pensare che non potrò averne un altro, che è stata solo fortuna perché io non piaccio a nessuno solitamente.
Chissà che persone sono i genitori di Beatrice, chissà cosa nascondono le loro lacrime: io penso, però, che se a casa trovi un nucleo caldo che ti dice che vai bene comunque anche se vesti una taglia 54, che ti vuole bene a prescindere dal peso, ecco, non ti ammazzi sotto un treno.
Anche se è vero che il calore di una famiglia, a quindici anni non conta nulla, contano i risolini dei ragazzi che ti chiamano balena, contano gli specchi e conta quel senso di incapacità totale di fronte ai propri difetti.
Sono confusa di fronte a questa morte inutile: non ho risposte, solo tanto dolore.
Amarsi quando si è grassi è impresa titanica, accettarsi per la propria stazza è un passaggio fondamentale ma durissimo: ci vuole una bella dose di chissenefrega, ma chi è che davvero se ne frega del parere altrui?
Questa morte insensata può insegnarci qualcosa, nel bene e nel male: ad amarci di più perché siamo uniche nella nostra taglia XL, uniche ed irripetibili.
Parafrasando Walt Whitman mi sento di dire che sì, sono grassa perché contengo moltitudini, sono ingombrante perché dentro di me ho un cuore enorme e milioni di pensieri e rompo anche un sacco le palle, ma va bene così, mi va bene non piacere a tutti, mi va bene essere come sono: uno scafandro con l’anima di una libellula.
E mi sento pure fortunata, perché io quel salto non l’ho fatto, perché io sono viva e ho ancora tempo per migliorare, per crescere, per amare ed amarmi.
Per imparare a volermi bene.
Beatrice non ha più questo tempo, lei vola leggera chissà dove, ha perso il corpo, quel corpo che odiava, che nessuno amava.
Mi dispiace, carissima Beatrice, io quel treno lo avrei preso, sarei salita e avrei combattuto la mia battaglia quotidiana contro i chili di troppo e i bulli, contro questa società bipolare che ora ti piange.
Ciao Beatrice, vola più in alto che puoi, tu che, ora, sei leggera.