Certe volte, in certe situazioni in cui non conta chi devi fingere di essere ma chi realmente sei, aiutata da un bel po’ di alcol in corpo e contornata da persone solitamente sconosciute, mi piace definirmi “poetessa”.
Parlo di rado di quella che definirei “una magica propensione”, un’attitudine speciale che coltivo da anni nel segreto della mia stanza ma, soprattutto, nelle stanze spoglie di alberghi quando parto a visitare il mondo e scopro dentro di me le buone vibrazioni che offre il nuovo, l’impensato, la solitudine.
Mi piace definirmi “poetessa”, dicevo, con vergogna non perché non abbia tanti anni di poesie e versi alle spalle (e una raccolta inedita che non interessa a nessuno tranne che a me) ma perché la poesia, solitamente, se fatta bene, ti inquadra, agli occhi degli altri, nell’universo misterioso dei poeti.
Sembra una tautologia eppure essere poetessa al giorno d’oggi significa due cose: o sei un’inguaribile romantica o sei una disagiata.
Essendo io entrambe le cose e vantandomene a tratti, a tratti vergognandomene, non sbandiero solitamente la mia puerile e amata vena di talento.
Nella giornata mondiale della poesia, però, lascio indietro gli indugi e vi voglio raccontare cosa sia la poesia per me: la poesia è una donna nuda che sogna con sguardo lascivo mondi lontani, amori lontani, la poesia per me ha un nome e questo nome è Alda Merini.
Questo articolo è dedicato a lei, alla poetessa dei Navigli, ma, soprattutto, alla donna afflitta da disturbi psichiatrici che non smise mai di lottare per i diritti dei “folli”.
“Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.”
Follia, questa parola abusata dai sedicenti sani per etichettare il diverso, l’incompreso.
Dalla follia di Alda Merini sgorgarono versi indimenticabili per me, per voi, per quasi tutti.
“Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto:
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole”.
Come definire Alda Merini? Impossibile senza usare le sue parole, a me piace chiamarla la “piccola ape furibonda” come lei stessa si chiamava.
Non mi voglio dilungare in biografie che trovereste facilmente su Wikipedia, voglio raccontarvi come la Merini viveva la vita: plasmava versi ed entrava e usciva dai manicomi.
Non ci sarebbero stati versi senza quei soggiorni a volte lunghissimi nelle cliniche psichiatriche pre-Basaglia (luoghi di puro orrore da lei descritti e denunciati nei suoi scritti).
Quando ci mettevano il cappio al collo e ci buttavano sulle brandine nude insieme a cocci immondi di bottiglie per favorire l’autoannientamento, allora sulle fronti madide compariva il sudore degli orti sacri, degli orti maledetti degli ulivi. Quando gli infermieri bastardi ci sollevavano le gonne putride e ghignavano, ghignavano verde, era in quel momento preciso che volevamo la lapidazione. Quando venivamo inchiodati in un cesso per esser sottoposti alla Cerletti, era in quel momento che la Gestapo vinceva e i nostri maledettissimi corpi non osavano sferrare pugni a destra e a manca per la resurrezione degli uomini.
Non ci sarebbero stati versi senza i suoi amori, difficili, piccole catastrofi sentimentali a volte, innamoramenti indiavolati e violenti altre; gli amori tranquilli non vado d’accordo con la poesia, noi poetesse dobbiamo intingere la penna nell’abisso dei dolori enormi e non c’è dolore più enorme di un amore appassionante e che non funziona.
La Merini non è l’unica poetessa che mi ha influenzato ma è quella che più mi assomiglia: certo, più coraggiosa di me a raccontare l’inferno che ti vive dentro e quello che invece se ne sta fuori negli occhi di chi ti guarda e ti imbriglia in definizioni che sono inaccettabili.
Non posso dire di aver vissuto le sue tragedie, Basaglia ha salvato tutti compresa me ma posso dire che lo so anche io che è solo l’amore che salva e scriverlo, dispiegarlo nei miei versi è l’unico modo che conosco di farlo diventare reale.
Voglio ricordarla con una sua frase che, secondo me, spiega perché noi poetesse rincorriamo a volte l’autodistruzione:
“Io la vita l’ho goduta perchè mi piace anche l’inferno della vita, e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perchè l’ho pagata cara.”
Amava la vita, Alda, quella vita percorsa tra amori e internamenti, tra elettroshock e travolgenti passioni e grazie a lei ho imparato ad amarla anche io, cercando tra le sue parole le ragioni della pazzia e gli strumenti per guarire.
Eppure la follia è una lettera scarlatta tatuata sulla pelle: non si guarisce e, per fortuna!
I non folli, i “normali” si perdono un sacco di cose: guardano un albero e vedono solo un albero, ecco io a questa tristezza esistenziale non mi ci voglio abituare, come non si era abituata lei, Alda, che degli alberi notava i germogli, le sparute gemme a primavera e i loro rami arrampicarsi nel cielo quasi a rincorrere qualcosa di più sacro della sola terra.
Ecco, anche io vedo questo negli alberi e questi occhi che mi ha regalato il destino non li voglio perdere per nulla al mondo, nonostante mi abbiano regalato anche l’inferno a volte, ma mai, mai, mai il vuoto. Grazie ai miei occhi, alla mia penna, ad Alda Merini, Antonia Pozzi, Anne Sexton, Sylvia Plath e alle loro parole non sono mai stata sola.
Volevo ringraziarvi poetesse del mio cuore, oggi è la vostra festa, oggi è la nostra festa.